La disobbedienza civile, la resistenza e il lavoro su di sé
Alcuni giorni fa sono venuta a conoscenza di una notizia che mi ha turbato parecchio.
E., un mio amico messicano attore a burattinaio, ha perso quasi tutto durante la tempesta che ha travolto la città di Asheville, negli Stati Uniti.
Il lavoro di settimane, mesi. Dipinti, marionette, opere d’arte. Quando abitava a Treviso, ho assistito alla mole di lavoro che c’è dietro una sua marionetta.
Oltre alla notizia in sé, come se non fosse già grave così, c’è stato un suo post che mi ha rattristato molto.
Non avendo più corrente elettrica, E. ha dovuto bruciare le poche marionette scampate all’acqua per cucinare una pasta.
Il passaggio violento dell’uragano ha distrutto il lavoro del mio amico, ha mandato all’aria la sua vita e quella di una città che stava crescendo.
Sono giorni che ci penso, che vorrei aiutarlo, ma non ne ho la possibilità.
E, puntualmente, ritorna quella sgradevole frustrazione, un senso di impotenza che non mi lascia andare da un po’.
M’impongo di non rintanarmi nell’indolenza e nell’egoismo che ci prende, di restare aggiornata, di partecipare, fare la mia piccola parte, per quello che posso fare.
Ma è davvero una misera goccia in un oceano e non mi basta.
Da giorni rifletto sulla responsabilità che abbiamo noi, che da questo piccolo angolo del mondo siamo testimoni.
E non mi riferisco solamente alla tempesta Helene, dal momento che abbiamo le nostre catastrofi naturali a cui fare fronte.
Negli ultimi giorni mi capita di leggere spesso la parola “disobbedienza” accanto al vocabolo “resistenza”.
La disobbedienza è un atto con cui si disobbedisce.
Resistenza, al contrario, è una parola che richiama a un’immobilità, rimanda allo stare fermo.
Trovo che siano due parole contrastanti. Resistere a un urto è diverso dal disobbedire come scelta a una regola, a un’autorità.
Ma non sono più così convinta che la disobbedienza, come la intendiamo noi ora, possa davvero fare la differenza.
Certo, informarci attraverso più mezzi, non solo quelli ufficiali, aprire gli occhi e la mente sono di grande aiuto, sono un atto di buonsenso, se si vuole capire un granello in più della realtà complicata in cui siamo immersi.
Negli anni ho seguito molti disobbedienti agguerriti, ho letto molti articoli di denuncia, ho ascoltato molti giornalisti e studiosi coraggiosi raccontare versioni di episodi di cronaca diverse da quelle ufficiali.
Ho accumulato una mole di informazioni che non sono riuscita ancora a metabolizzare del tutto. Le ho lasciate lì, in un angolo della mia mente, a latitare.
Ogni tanto accade un evento di cronaca che mi ricorda una notizia letta anni prima e allora la memoria si risveglia.
E, insieme a lei, il disgusto, perché ora capisco qualcosa in più, perché devo rifare i conti con un raccapriccio che avevo messo da parte.
L’istinto umano, quello che ha origine dal cervello rettiliano, il più antico, è quello di attacco-fuga. Davanti a una minaccia, a qualcosa di brutto l’uomo d’impulso fugge o attacca.
Ma noi ci siamo evoluti. Abbiamo una parte più sofisticata del cervello.
È vero, quella dei tre cervelli è una teoria da confermare.
Lo studioso Igor Sibaldi, oltretutto, mette in guardia dal monismo neuroscientifico che ha preso piede da un po’ di tempo a questa parte.
Pensare che noi usiamo solo una minuscola parte del nostro cervello e che abbiamo tutto un potenziale sconosciuto non ancora utilizzato, può essere però uno sprone a lavorare su noi stessi.
L’essere umano è più facilmente portato all’azione fisica, quando qualcosa non va.
E anche quando si avvicina a certi temi, che oggi etichetteremmo come spirituali, fatica a metterli in pratica.
È così difficile pensare di influire sulla realtà esterna lavorando interiormente.
Credere davvero che un atto intellettivo ed emotivo abbia il potere di cambiare qualcosa là fuori.
A peggiorare le cose ci si è messa la new age che ha cominciato a occuparsi di argomenti come la legge di attrazione e la creazione della realtà, banalizzando dei temi che sono molto più antichi e profondi.
La vera disobbedienza è cominciare a riappropriarci del potere che abbiamo e che non conosciamo. È dedicare del tempo al suo sviluppo, scegliendo la strada che più si addice a noi.
Che siano pratiche antiche o contemporanee, occidentali od orientali, che si scelga di studiare Steiner, Guénon, Gurdjieff, Yogananda, Neville Goddard, Sibaldi, non è importante.
Basterebbero anche pochi minuti al giorno per cominciare una rivoluzione personale.
Finché ci arrabbiamo, litighiamo e protestiamo contro la realtà esterna, contro l’allucinazione condivisa in cui siamo immersi, conferiamo un potere all’esterno.
E proprio noi, che abbiamo il privilegio di godere di giornate tranquille al limite del noioso, di non dover sopravvivere, avremmo il compito d’impegnarci per dare vita a un nuovo approccio alla realtà, che poi così nuovo non è.
Proprio noi che non dobbiamo difenderci da continue minacce esterne e abbiamo i nostri bisogni primari soddisfatti dovremmo adoperarci per un lavoro interiore che ci evolva veramente.
Diventare dei pionieri che esplorano territori un tempo appannaggio solo di pochi, colti iniziati.
E poi, in un secondo momento, passare all’azione. Ma con una forza interiore e una consapevolezza diversa e molto più solida.