Rinunciare alla ragione spalanca mondi nuovi
C’è una frase che ha un potere magico, quando la pronunci. Ti libera da tutti i vincoli mentali, dai condizionamenti sociali e dalla stupida convinzione di essere una persona speciale, chissà poi perché.
È la frase:” ho sbagliato tutto”.
Quanto è dura pronunciarla. Ma se trovi il coraggio di dirla, prima mentalmente e poi ad alta voce, ti spalanca orizzonti impensabili.
Sempre meno persone hanno il coraggio di pronunciarla in questo periodo, perché aggrappate a difendere un’identità tanto illusoria quanto deleteria.
Pronunciarla, ti rende vulnerabile, è vero, e attaccabile.
E molta gente adesso non vede l’ora di poter puntare il dito su qualcun altro. Di sentirsi quello giusto e accusare l’altro di essere quello in difetto.
Eppure, è proprio la pretesa di volere la ragione a tutti i costi che oggi ostacola una crescita personale.
Tanto più sei avvinghiato a ciò che sai e a ciò che credi di essere, tanto più ti vieti di vivere nuove opportunità.
La ragione è appannaggio della mente razionale. Il riconoscere i propri sbagli, al contrario, è un’intuizione che proviene dal cuore.
Se hai il coraggio di riconoscere i tuoi sbagli, di ammettere: “ho sbagliato tutto” di punto in bianco si azzera tutto. Le tue scelte, i tuoi attaccamenti, la tua storia personale.
Resti tu e quel che davvero conta. La tua vocazione.
Non devi più rendere conto a un’identità complessa e contraddittoria che hai tenuto in piedi con fatica per tanti anni.
E sei libero di ricominciare. Di ricostruire tutto daccapo, di tradire perfino quello che eri per sperimentare strade nuove.
Puoi fare tutto. Non devi più essere coerente. Che fatica restare coerenti quando si desidera cambiare.
A quel punto diventi più ricettivo. Sei affamato di scoprire e di cogliere nuove ispirazioni.
Nel corso degli anni ho imparato che le ispirazioni più profonde mi arrivavano dalle persone più insospettabili, nei momenti e nei luoghi più strani.
Le persone da cui ho imparato di più in assoluto sono stati i ragazzi disabili che ho incontrato quando facevo l’educatrice, gli animali e gli stravaganti, gli emarginati, i senzatetto che gironzolano per strada senza un apparente scopo.
A ben pensarci, tutte persone che non hanno nulla da perdere. Persone che non ricoprono un ruolo riconosciuto nella società e che, per questo, non sono impegnate a compiacere e mostrarsi nel migliore dei modi agli altri.
Ci sono ragazzi disabili che mi hanno insegnato a essere felice senza una ragione importante e senza avere nessuna prospettiva per il futuro. A ridere di una sciocchezza che lì per lì è divertente senza vergognarmi. A rimandare le scadenze e i doveri al momento opportuno e godermi il momento presente.
I miei gatti sono fra i miei più grandi maestri di vita. Il piccolino, Chicco, mi ha insegnato a mantenere la dignità anche quando si sta male fisicamente. A non lamentarmi e agitarmi inutilmente, se ho un dolore fisico. A restare centrata, in silenzio, e lasciare che il mio corpo utilizzi tutte le sue energie per guarire.
Leo, il grande, mi ha insegnato l’orgoglio e il contegno. A non supplicare mai, neppure quando si è disperati. A non perdere mai l’amor proprio per nessuna ragione al mondo, nemmeno di fronte a una ciotola piena di crocchette, dopo ore di digiuno.
Una volta, diversi anni fa, mentre portavo a passeggio Ettore, il mio cane, mi sono imbattuta in un ex tossicodipendente. Eravamo vicino al centro di riabilitazione.
Io ero impaziente che Ettore facesse i suoi bisogni per tornare a casa, ma il mio cane non ne voleva sapere. Annusava ogni cespuglio senza decidersi.
Mentre sbuffavo e brontolavo sottovoce, l’uomo, che mi stava osservando da un po’, seduto sopra una panchina, se ne è uscito, dicendo:” non dargli fretta. È la sua passeggiata. Per lui è importante e vuole godersela”.
Un commento lì per lì banale che mi ha scaraventato, in un frangente, dal mio egocentrico punto di vista a quello del mio cane. Mi ha insegnato l’empatia.
Anziché risentirmi e andare sulla difensiva, l’ho ringraziato. Erano le prime volte che facevo i conti con quella che sarebbe diventata per me una filosofia di vita.
Le frasi in apparenza casuali, pronunciate da persone insolite, a volte molto distanti dal mio mondo, nascondono delle lezioni che mi servono in quel preciso momento.
Ho imparato nel tempo a tenere le antenne sollevate in aria e a cercare le ispirazioni in giro. A fare domande, non so bene a chi, e aspettare che mi arrivino le risposte.
Jung le chiama sincronicità. Secondo lo psicologo svizzero c’è un legame intimo e invisibile tra la nostra natura psichica e la realtà esterna in cui ci muoviamo.
Più ti abitui a diventare ricettivo e più impari a riconoscere le frasi autentiche e quelle fittizie.
Impari a distinguere le lezioni preziose da quelle inutili.
Impari a usare parole che per te hanno un senso, a fare discorsi che siano genuini, svincolati dalle illusioni delle identità e della società.
Gran parte della gente in questo momento rimane aggrappata con le unghie e con i denti ai riferimenti di sempre, alle certezze e infine alla propria identità.
Un’identità fatta non solo di convinzioni personali e di abitudini, ma anche di credenze condivise con gli altri. Di discorsi e di parole che tengono insieme i cocci di questa società ormai vicina al declino.
E anche quando sei convinto di ribellarti, di schierarti dalla parte dei più deboli e di contrastare la maggioranza, continui a rimanere dentro i confini della società. E fai il suo gioco.
Non c’è nulla che spaventi di più di chi è libero mentalmente, si è alleggerito di una storia personale e ha una creatività sconfinata, per questo diventa imprevedibile.
Forse è per questa ragione che i numeri contano tanto adesso.
I riflettori sono puntati sulle vendite, sugli ascolti, su followers e visualizzazioni come fossero il maggiore traguardo a cui ambire in questa società.
Chi si lascia sedurre da questi obiettivi, però, è costretto a sacrificare un linguaggio più autentico, per ottenere risultati riconosciuti e condivisi.
Deve necessariamente uniformare le sue parole a quelle della maggioranza, per essere capito, anche quando è consapevole di pronunciare parole vuote.
Quel che conta è arrivare a più gente possibile e ottenere il successo conclamato.
E così facendo, chi ricopre ruoli di potere ci guadagna, perché ostacola una crescita che potrebbe partire dalle parole e coinvolgere via via più persone.
Un’evoluzione che potrebbe avere origine da parole non consumate e impoverite, ma da un linguaggio capace di scuotere le coscienze e di stimolare un desiderio di cambiamento.
Un po’ come è accaduto nel nostro paese fra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, quando ogni cosa, dalla tv, ai film e alla musica, nasceva con un intento evolutivo e onesto. Ma quelli, ahimè, erano tempi diversi.