Di gatti che si credono cani o dello scrivere con stile

 

È stata una settimana piuttosto frenetica che si è conclusa dal veterinario per Leo, il gatto grande.

Niente di grave, per fortuna. Io ho due panzer al posto dei gatti.

Leo, però, da qualche giorno tossiva un po’ troppo spesso e ho preferito correre ai ripari, prima che peggiorasse.

Leo è un gatto molto strano.

Durante i suoi primi tre mesi di vita ha convissuto con alcuni cani.

In quel periodo ha avuto un imprinting che lo ha segnato profondamente, perché da allora è convinto di essere un cane.

Fino all’anno scorso ringhiava a chiunque gli si avvicinasse, mentre rosicchiava il suo snack come fosse l’osso di un cane.

Si diverte a scalciare (o almeno ci prova) coperte, lenzuola o vestiti con le zampe di dietro.

E, cosa peggiore, quando lo porto fuori, emette un suono inquietante senza tregua, un misto fra un ululato disperato e il verso di un tacchino. A un volume altissimo.

È il terrore del veterinario che cerca di incastrare le nostre visite quando c’è poca gente, e di liquidarci il prima possibile.

Non appena varchiamo la soglia dell’ambulatorio Leo crea il caos intorno a sé.

Agita gli altri animali e la sala d’attesa si trasforma in un’orchestra sinfonica tutt’altro che piacevole, meritandoci le occhiatacce dei diversi padroni.

Ieri l’ambulatorio era stracolmo di persone e animali tant’è che ho preferito aspettare fuori.

Ho piazzato un Leo indignato nell’unico angolino libero all’ombra, proprio accanto ai bidoni dei rifiuti.

Il dottore ci ha accolti, poco dopo, con una siringa extra large già pronta in mano.

Leo mi ha lanciato uno sguardo accusatorio, mentre io, impallidita, ho finto nonchalance per rassicurarlo.

Lo confesso: in realtà, io ho un pessimo rapporto con gli aghi da quando ero piccola.

Non importa che dimensione abbiano.

Da quelli dei medici a quelli dei tatuatori, preferisco di gran lunga farne a meno.

Vergognosamente poco temeraria, almeno in questo, sebbene i tatuaggi mi piacciano, non mi farei tatuare nemmeno le zampe di una formica, io.

Dopo la puntura siamo usciti, entrambi pallidi in volto, ma senza fiatare, con più stile di quando siamo entrati.

Dalla porta di servizio.

Scrivere con stile: si comincia dalla punteggiatura

Nel web tutti diventiamo degli autori, non solo chi lo fa per mestiere.

Tutti scriviamo un post, un commento o una recensione.

E, ahimé, in troppi cadono ancora nell’errore di scrivere di getto, in maniera automatica, subendo parole, frasi e segni (quando usati), anziché padroneggiarli.

Un bravo autore, al contrario, dovrebbe sempre usare sapientemente istinto e tecnica, inconscio e consapevolezza, se vuole scrivere un messaggio chiaro e curato.

Quando si punta a scrivere con stile, bisognerebbe prima di tutto tornare alle basi, rispolverare le fondamenta della scrittura: la punteggiatura.

Troppe volte la si sottovaluta, relegandola a un ruolo decorativo e di poco conto.

In realtà, i segni di interpunzione non sono messi lì per bellezza, ma servono a dare ritmo, significato e, quando si è davvero bravi, originalità a un testo scritto.

Ignorarla, vuol dire scrivere un messaggio confuso, pedante, un polpettone fitto di parole che finisce col diventare incomprensibile e faticoso da leggere.

I lettori non vivono nella nostra testa.

Se non li aiutiamo usando la punteggiatura, faranno una fatica immane a capire cosa vogliamo dire.

“Vado a mangiare, mamma”.

“Vado a mangiare mamma”.

Basta una semplice virgola, per migliorare una frase. Non ci vuole poi tanto.

Negli ultimi tempi, quando si scrive online, si tende a usare di frequente il punto, pensando così di ottenere un tono più colloquiale.

Come conseguenza, ci ritroviamo a leggere un discorso tagliato in tante, troppe, frasi brevi, poco scorrevoli, così serrate da provocare quasi l’ansia.

In questo modo il messaggio diventa frammentato e poco chiaro; costringeremo il lettore a fare uno sforzo in più per ricostruirlo e dargli un senso logico.

E, cosa peggiore, a lungo andare il punto perderà il suo valore originale, cioè quello di dare ritmo al testo scritto e di mettere a fuoco alcune parole, isolandole dalla frase principale.

“Ha sentito. Troppo tardi”.

“Ha sentito troppo tardi”.

Il fatto è che noi tendiamo a scrivere un messaggio seguendo l’intonazione della voce interiore e aggiungiamo il punto ogni volta che riteniamo occorra una pausa nel discorso.

In realtà, la narrazione non segue le stesse regole nel parlato e nello scritto.

Usare la punteggiatura scritta, seguendo per istinto quella orale, è uno sbaglio comune che alla lunga ostacola la lettura.

L’uso eccessivo del punto può esser arginato, ricorrendo ad altri segni di interpunzione, come la virgola o il tanto bistrattato punto e virgola.

“Di quella donna gli era piaciuto tutto. Gli erano piaciuti gli occhi chiari. Prima di ogni altra cosa. Poi l’atteggiamento. Gli era piaciuta la voce. Una cosa però proprio non gli era piaciuta. Anzi, l’aveva detestata. L’abitudine di giocare con i suoi capelli”.

Quando scriviamo un testo, prendiamo l’abitudine di riscriverlo, una seconda volta, sostituendo il punto con altri segni di interpunzione.

“Di quella donna gli era piaciuto tutto: gli erano piaciuti gli occhi chiari, prima di ogni altra cosa, poi l’atteggiamento; gli era piaciuta la voce. Una cosa però proprio non gli era piaciuta, anzi, la aveva detestata: l’abitudine di giocare con i suoi capelli”.

Se proviamo a leggere mentalmente il primo testo, ci accorgeremo di seguire un ritmo monotono e meccanico, poco espressivo.

Nel secondo testo, invece, la lettura diventa decisamente più scorrevole e armoniosa.

 
Virna Cipriani