Delle diversità e di parole ingannevoli che piacciono al potere
Mi sono imbattuta molto presto nelle differenze regionali. Già da bambina. Nata in Veneto, da padre romano e madre fiorentina.
Da piccolina sentivo di non appartenere davvero a nessun luogo. Estranea al codice segreto dei miei compagni di scuola, un codice fatto di parole e frasi dialettali che io non sapevo pronunciare.
Estranea agli zii romani, quando andavamo a trovarli durante le vacanze e ci accoglievano, dicendo:” Ecco le nipoti polentone” con un misto di affetto e di diffidenza.
E ai parenti toscani, tanto cordiali quanto riservati e un po’ snob.
Ho trascorso le elementari desiderando essere uguale alle altre bambine.
Ricordo di essermi contrariata parecchio quando mia madre mi aveva comprato il vocabolario di italiano richiesto dalla maestra.
Tutti i compagni avevano lo stesso dizionario con le immagini e la copertina verde, mentre io mi ero dovuta presentare con un Garzanti.
Un regalo del nonno giornalista che pretendeva che le nipoti studiassero al meglio la lingua italiana.
Poco apprezzato da me all’epoca, aihmé, che desideravo solo un oggetto che mi accomunasse ai miei compagni.
Ho dovuto fare presto i conti con le differenze di cultura, sviluppare un mentalità elastica per riuscire ad adattarmi nei diversi contesti.
Finita la scuola dalle suore, caricavamo la nostra Fiat Ritmo beige e partivamo per Roma e poi per Fregene.
In poche ore passavamo dalla nostra casa in un paesino di campagna, dalla scuola privata con le suore e i bambini di Treviso a un quartiere popolare di Roma dove i ragazzini che incontravo erano molto diversi.
E io, timidissima, dovevo mostrarmi sveglia per non passare per la veneta ingenua. Dovevo rispondere a tono, non mostrare la mia sorpresa, altrimenti gli zii e i vicini mi avrebbero preso in giro.
E poi, ricordo la fatica di dover piacere a tutti.
Ai genitori degli amici veneti che ci scrutavano con sospetto, perché eravamo le figlie dei due romani (così loro credevano), per giunta separati.
Ai romani convinti che non avessimo ereditato poi tanto la romanità di papà.
E ai fiorentini che pur sempre gentili, non hanno mai realmente accorciato le distanze fra noi e loro.
Solo da grande ho capito il valore delle mie origini. Non appartenere davvero a una cultura regionale mi ha permesso di guardarle tutto con obiettività e di prendere da ognuna quello che più mi piacesse.
Mi ha aiutato vivere alcuni periodi della mia vita nelle diverse città.
Adesso che sono adulta, sono in grado di apprezzare la genuinità contadina veneta. Il loro orgoglio, l’importanza che danno a quello che guadagnano con la fatica.
Amo la sfrontata ironia romana, quella maniera impunita di fare, anche quando sono in torto, di cavarsela sempre con una battuta.
Ho fatto pace anche con l’estrema riservatezza dei fiorentini, in apparenza amichevoli e disponibili come i romani, ma sotto sotto molto più chiusi.
Una varietà di culture e tradizioni regionali che tanto amava e difendeva Pasolini e che ha rischiato di venire calpestata più volte in nome del progresso e dall’appiattimento che ne consegue.
Ecco un parola ambigua, dall’apparenza benevola, ma che nasconde tante insidie. Progresso.
Quando andavo a scuola mi hanno insegnato l’importanza e i benefici delle rivoluzioni industriali. Il professore ci ha spiegato come siano state indispensabili per arrivare dove eravamo arrivati.
Una certezza che mi sono portata dietro per molti anni, senza mai approfondire davvero veramente.
Il primo a incrinare la mia certezza, intorno ai vent’anni, è stato Charlie Chaplin col suo “Tempi moderni”.
Chi mi ha segnato in profondità, però, è stato John Steinbeck, un autore che amo molto. Dopo aver letto “Furore”, l’immagine di Rose of Sharon mentre offre il seno pieno di latte all’uomo che stava morendo di fame, mi ha tormentata a lungo.
Parole ambigue che ostacolano un’evoluzione personale
Questo è un articolo per me controverso, perché molto personale e delicato. Poi è accaduto di aver buttato l’occhio su due notizie di questi giorni e il mio impulso a ribellarmi alla realtà intorno ha preso il sopravvento su tutto il resto.
C’è una parola, molto pronunciata ora, che ho incontrato spesso nel corso degli anni e che mi ha sempre provocato una strana orticaria.
Inclusione o inclusività. Pur riconoscendone l’intento buono, questa parola mi ha sempre lasciato addosso una sensazione spiacevole. Col tempo ho capito il perché.
Proprio ieri ho letto del treno dell’inclusività, un’iniziativa recente dell’ATAC. Un treno con i colori dell’arcobaleno in onore della comunità arcobaleno.
Una notizia che mi ha suscitato non poche perplessità e mi ha portata a chiedermi se questo sia un vero progresso o un imbroglio mascherato bene, un ostacolo a una evoluzione personale.
Includere qualcuno presuppone che ci siano persone che occupano una posizione privilegiata.
Una condizione o uno stato privilegiato dal quale scegliere se diventare benevoli a sufficienza da includere altre persone oppure estrometterle.
L’insidia nascosta in questa parola è proprio quel posto privilegiato in cui mette automaticamente alcune persone “buone” e, cosa peggiore, le fa sentire davvero buone.
La realtà dei fatti è che nessuno include proprio nessuno. Ci siamo già tutti qua, che ci piaccia o meno.
Possiamo scegliere se accogliere, se fare amicizia, voler conoscere, offrire una possibilità oppure se rifiutare, ignorare e fare finta che non ci sitano accanto.
Che si tratti di disabili, di extracomunitari o di omosessuali
Omosessuale. Ecco un’altra parola subdola perché pronunciata con un intento in apparenza benevolo, ma che ahimé camuffa una trappola invisibile.
La parola omosessuale nasce solo nel 1870. Prima di allora gli omosessuali non esistevano. Non esistevano contrasti fra eterosessuali e omosessuali.
Esisteva un tipo di piacere diverso considerato normale e che non comprometteva chi lo praticava.
Era naturale per alcune persone avvicinarsi a persone dello stesso sesso per provare un piacere diverso e non era un comportamento discriminante.
Con la nascita della parola omosessuale si è snaturato un atto spontaneo e si è creata una diversità, si è messa un’etichetta ad alcune persone.
E con l’etichetta omosessuale, nascono nuovi problemi, il bisogno di scrivere delle regole, lo snaturamento per l’appunto di un atteggiamento che prima era naturale, la vergogna e il controllo.
Nel 1890 in Inghilterra viene vietata per la prima volta l’omosessualità maschile. Nel 1896 Oscar Wilde viene processato per omosessualità.
Ecco che allora quel treno dell’inclusività acquista un sapore un po’ più amaro.
Hanno regalato, sì, dei vagoni della metro agli omosessuali, ma hanno tolto loro il diritto di esserci naturalmente, senza bisogno di concessioni e riconoscimenti continui.
Ci sono parole che nascono con un fine ingannatore e strisciante. Riconoscerle non è poi così difficile, perché sono parole sulla bocca di tutti oggi, molto usate in questo periodo in tv, nei social e sui giornali.
Non sono parole censurate, tutt’altro. Sono termini che godono del benestare di chi è al potere.
Sesso o sessualità, ecco un altro di questi vocaboli. Una parola che si fa bella di una lotta alla repressione e al moralismo.
Pronunciarla ti fa sentire in apparenza libero ed emancipato.
Secondo il filosofo Foucault la parola sessualità è una costruzione dei tempi moderni che serve al potere per controllare le persone.
Con l’uso della parola sesso, sono nati i primi discorsi, le analisi, le scienze e nuovi disturbi.
Gli scrittori dedell'800 non la usavano, eppure riuscivano a raccontare nei loro romanzi molto bene l’intimità fisica.
Sesso è una parola ingannevole e ha dato l’occasione a chi è al potere di inventare nuove regole, di decidere cosa è naturale e cosa no.
Perché la ritengo insidiosa?
Perché è una parola vuota, astratta, per nulla evocativa, ben lontana dalla naturalezza che avrebbe la pretesa di rappresentare, ma perfetta per riempire i libri di scienza, di psicologia e salotti televisivi.
È una parola che ha fagocitato tutti gli altri termini fino a poco tempo utilizzati per raccontare l’intimità fisica attraverso innumerevoli sfumature diverse.
E si sa, più parole abbiamo, più è ricca e diversificata l’esperienza della realtà che facciamo.
Amore, desiderio, carezze, gioco, seduzione, preliminari, piacere, godimento, perversione.
Ce ne sarebbero tantissime, tutte parole usate nei romanzi di un tempo e che arricchivano la lettura.
Quando i ragazzi di oggi preferiscono l’espressione “fare sesso” a tutte le altre si perdono per strada la bellezza di queste sfumature.
Una delle tante conseguenze della diffusione della parola sesso l’abbiamo sotto gli occhi in questi giorni. Proprio ieri ho letto della nuova fida fra i giovani di cui si parla sui sociai, la sex roulette.
Fare sesso senza preservativo correndo il rischio di restare incinta. Una tendenza che nasconde il bisogno disperato di arricchire l’esperienza dell’intimità in ogni modo.