Di mode, tic linguistici o come riappropriarci del pensiero critico

 

La mentalità della mia città mi è stata stretta per anni.

Come molte piccole province, anche Treviso è vittima di mode, luoghi comuni e pregiudizi.

Da piccolina ho avuto il mio momento ribelle.

Disobbedivo alle convenzioni sociali, vestendomi di nero dalla punta dei capelli fino ai piedi che calzavano fieri un paio di anfibi, anche in piena estate con 40 gradi all’ombra. .

Quando facevamo la spesa insieme, mia sorella, molto più sensibile al giudizio degli altri, camminava sempre a mezzo metro di distanza da me.

Nel tempo ho imparato a sostituire l’esigenza di ribellarmi alla mentalità di chi avevo vicino con la scelta delle amicizie.

Ho allargato poco alla volta la cerchia delle mie conoscenze, avvicinando persone con cui condividevo alcune passioni, come il teatro o la musica.

E nel mio guardaroba sono tornati gradualmente i colori.

Infine, mi sono spostata e ho vissuto in città diverse, molto più grandi e stimolanti.

Ho sempre avuto lo spirito di contraddizione, come dice mia madre, un po’ perché ero una ragazzina indipendente, un po’ perché ero una gran rompiscatole.

Crescendo mi sono ammorbidita parecchio e ho imparato a seguire semplicemente il mio gusto personale.

Un atteggiamento che mi ha aiutato, e mi sta servendo ancora adesso, a prendere le giuste distanze dalle tendenze diffuse fra la gente e a mantenere un pensiero critico, anche nei periodi più opprimenti.

I tic linguistici di questi anni

Negli ultimi anni ci sono alcune parole o espressioni che hanno via via inquinato il linguaggio quotidiano; non a caso, le hanno etichettate come “plastismi”, un vocabolo che rievoca la plastica nel mare.

Le persone li infilano ovunque in maniera meccanica, anche quando potrebbero usare parole diverse, molto più indicate ed eleganti.

Assolutamente sì, assolutamente no, spalmare, piuttosto che (usato al posto di “oppure”), anche no e via dicendo.

Ho concluso la frase con “e via dicendo”, ma avrei potuto scrivere “eccetera”, “e così via”, “e altri ancora”.

In molti, invece, oggi usano dire “quant’altro”. Ecco un tic linguistico fra i più comuni in questo periodo.

Un tempo “quant’altro” veniva utilizzato in apertura di una frase relativa al posto di “quello che”, “tutto quello che”, “tutte le altre cose che”.

Per esempio, nel 1822 l’autore Pietro Brighenti scrisse in una lettera a Leopardi:

Io gli dissi le nuove che avevo di voi, e quant’altro bramavate che sapesse del vostro carteggio.

In seguito quant’altro + il participio passato di un verbo è diventato un’espressione molto usata nella burocrazia.

I tempi e le modalità dei controlli e quant’altro ritenuto utile

..e quant’altro ritenuto opportuno

… e quant’altro ritenuto necessario

….e quant’altro deliberato

Oggi sono in tanti a usare “quant’altro” alla fine della frase al posto di “eccetera”.

È diventato un vero e proprio tic linguistico.

Come ha scritto lo studioso Luca Serianni, però, “quant’altro” a fine frase suscita una fastidiosa sensazione che ci sia qualcosa di sospeso, di inespresso.

Adattarci a un utilizzo non critico di questi tic linguistici vuol dire conformarci a un pensiero di massa; queste mode del linguaggio c’impigriscono mentalmente.

Tutti i plastismi, spiega la studiosa Ornella Castellani Polidori, hanno una caratteristica preoccupante: quella di fare terra bruciata intorno a sé.

A forza di usarli, disimpariamo a usare parole ed espressioni diverse, più adatte a rendere una sfumatura particolare, più precise e, come conseguenza, piano piano impoveriamo la nostra lingua.

 
Virna Cipriani