Quando lo Show, don't tell diventa un limite

 

È stata una settimana caratterizzata da alcuni accadimenti faticosi da digerire, sia nel lavoro, sia nella vita privata.

Avrei potuto cedere alla tentazione di arrabbiarmi, di protestare e dare sfogo alle emozioni che volevano emergere a tutti i costi; ai pensieri ossessivi che non mi concedevano tregua, mi spingevano a sentirmi vittima delle circostanze

E invece mi sono imposta l’ascolto.

Come se fossi un piccolo alieno che non sa nulla dell’essere umano e s’intrufola nel mio corpo. Abituato alla calma e al silenzio, si ritrova d’un tratto a essere una pallina all’interno di un flipper che è la mia mente, sballottata di qua e di là dai vari ingranaggi, respinta dai bersagli a molla, rintronata da lucine e suoni.

Ci lamentiamo spesso degli innumerevoli stimoli di internet, ma ignoriamo di quanto caos regni dentro di noi.

Una volta ho letto che un’emozione ha un potere coinvolgente fino a 90 secondi, dopodiché perde d’intensità. Se anziché lasciarti trascinare da lei, conti i secondi, una volta esaurito il tempo, puoi scegliere di immedesimarti e alimentarla oppure di lasciarla perdere.

In questi giorni ho scelto di ascoltare il corpo, i pensieri e le emozioni senza nessun giudizio. Di diventare spettatrice attenta di me stessa, in una guerra fra la contemplazione e la rivolta. E non è stato per nulla facile.

Quando i pensieri si accavallano in un susseguirsi di grovigli illogici e le emozioni rischiano di traboccare non appena abbassi la guardia, restare immobile, con la sola attenzione vigile, è un’impresa titanica.

Nei sporadici momenti in cui sono riuscita a farlo, però, è capitato qualcosa di commovente che mi ha spronato a insistere.

Una piccola parte di me, qualcuno direbbe la mia bambina interiore, si è sentita guardata e poi accolta con tutte le sue imperfezioni e finalmente riconosciuta.

E ho scoperto che alla fine è proprio quello di cui ho bisogno, permettermi di essere senza condizionamenti, senza reprimere mie parti che potrebbero costarmi un rifiuto.

Pretendiamo che gli altri ci amino in modo incondizionato, ma siamo noi i primi a non accettarci per intero.

Ci dimeniamo alla ricerca delle attenzioni altrui, di un semplice apprezzamento, di un secondo di attenzione, quando noi non sappiamo darci ascolto e riconoscerci.

Eppure basta così poco, cominciare a farlo e poi non dipendi più dal riconoscimento degli altri.

In un secondo momento, ho scelto di ascoltare chi avevo davanti.

Mi sono morsa la lingua più volte; mi sono costretta a non reagire per fare valere le mie ragioni, ad ascoltare l’altro e osservarlo attentamente.

E, così facendo, è successa una cosa strana: non ho più saputo rispondere, non ero più in grado di studiarmi una difesa mentre l’altro stava parlando.

Non facciamo quasi sempre così? Approfittiamo dei brevi minuti in cui la persona che abbiamo davanti parla, per prepararci mentalmente il nostro discorso e avere l’ultima parola. E, nel frattempo, non lo ascoltiamo veramente.

Per questa ragione abbiamo la tendenza a interrompere l’altro; non c’interessa che finisca il suo ragionamento, abbiamo l’urgenza di imporgli il nostro.

L’attenzione è sempre rivolta su noi stessi, anche in modo inconscio.

Mi sono accorta che se siamo intenti ad ascoltare l’altro, le sue parole, il tono di voce, l’atteggiamento del corpo, usciamo da noi stessi, scopriamo il suo punto di vista. E il nostro perde in automatico di importanza.

Ho scoperto che l’ascolto autentico è mille volte più interessante del volere la ragione a ogni costo. Ti arricchisce, ti fa crescere.

Il punto d vista di chi racconta

Allenarsi a scoprire punti di vista diversi dal proprio, può tornare utile anche nella scrittura.

Tante volte ho promosso la tecnica di scrittura “Show, don’t tell”. È una pratica che consiglio di adottare, quando si scrive online.

Una scrittura semplice, in cui prevale un linguaggio sensoriale, è più efficace e facile da padroneggiare.

Se dobbiamo promuovere un ristorante attraverso lo storytelling, per esempio, è utile mostrare l’esperienza gastronomica; idem se facciamo pubblicità alle scarpe da trekking.

La scrittura creativa è un’altra cosa, però. Non potrei essere una fanatica dello “Show, don’t tell” proprio io che amo particolarmente i romanzi dell’Ottocento.

Un tempo, i classici erano storie costruite su più strati, in cui non mancavano i diversi punti di vista dei personaggi, vedi Tolstoj in “Anna Karenina”; le vicende secondarie s’intrecciavano a quelle principali, dando vita a vere e proprie masse romanzesche.

Basta leggere i romanzi di Tolstoj, Dumas, Tolkien, Jane Austen, per esempio.

Lo scrittore è qui presente, dice la sua senza riserbo, non nasconde le proprie simpatie.

Ecco che Anna Karenina riesce a intenerirti, sebbene tradisca il marito e abbandoni il figlio; che fai il tifo per il conte di Montecristo, senza dubitare mai che sia nel giusto.

A partire dalla fine dell’Ottocento il ruolo dell’autore ha cominciato gradualmente a ridimensionarsi. Inizia a scrivere trame via via più semplici, meno stratificate, costruite intorno a pochi intrecci psicologici.

E si fa largo la tecnica dello “Show, don’t tell”, cioè del mostrare la realtà in modo oggettivo. E così la regola d’oro della scrittura creativa diventa l’oggettività, l’impersonalità prudente che gli esperti ritenevano superiore dal punto di vista artistico rispetto alla presenza dell’autore.

A un certo punto, lo scrittore ha fatto un passo indietro, smesso di raccontare e ha iniziato solo a mostrare.

Una tendenza che ha suscitato le polemiche di qualcuno. Edgar Allan Poe espresse il suo disappunto, per esempio, quando scrisse:

Un po’ di accuratezza in meno ci avrebbe lasciato più cervello. Invece, eccoli i critici, a sperticarsi in elogi per la veridicità. A parer mio, se un artista deve dipingere un cacio irrancidito, il merito consisterà nel farlo sembrare il meno rancido possibile.

Così facendo, abbiamo perso per strada la ricchezza della letteratura di prima. I punti di vista dei diversi personaggi, le intromissioni dell’autore, i commenti, le digressioni.

Come ha sostenuto la scrittrice Flannery O’Connor, la ricerca ossessiva di mostrare i fatti in modo obiettivo ha ristretto il campo di azione del romanzo anziché ampliarlo.

E, senza accorgercene, ci siamo abituati a una letteratura semplificata, talvolta forse perfino politicamente corretta, perché oggi sarebbe un guaio se un autore simpatizzasse apertamente per un personaggio scorretto o losco.

 
Virna Cipriani