L'importanza di riscoprire le parole antiche
Amo le storie, sia quelle delle persone, sia quelle che riguardano gli oggetti.
C’è un mercatino dell’usato, non lontano da casa mia, dove mi piace andare di tanto in tanto.
È un punto di riferimento della zona, per questo è sempre rifornito di mobili e oggetti di ogni provenienza.
Nessun complemento d’arredo nuovo, anche se di qualità, ha su di me la stessa presa che può avere un oggetto vintage o antico.
Quando vivevo a Londra, mi piaceva intrufolarmi nei mercatini di quartiere, conoscere le famiglie inglesi, comprare vinili o i piccoli oggetti usati e ascoltare le storie che li riguardavano.
Quasi sempre acquistavo oggetti di uso comune, come gli utensili per la cucina o i salvadanai, pur sapendo che non li avrei mai usati.
Mi piaceva l’idea di portarmi a casa un pezzetto della loro quotidianità. È come se, così facendo, avessi ridotto le distanze fra me e gli altri.
Sono affascinata da tutto ciò che mostra senza timore i naturali segni del tempo, come le imperfezioni di un tavolo in legno, le travi originarie di una casa.
Nulla a che vedere con i mobili svedesi che, per quanto pratici, restano pur sempre freddi e impersonali.
Durante i miei anni universitari ho fatto diversi lavori, per pagarmi gli studi. In uno di questi vendevo la frutta caramellata. Ovunque. A Treviso, a Venezia, in provincia di Padova.
La “donna crepes”, così la chiamavamo perché cucinava le crepes da ambulante, aveva un giro di studentesse che, per guadagnarsi dei soldi, nel weekend vendeva mele e noci caramellate.
Lei ci preparava un banchetto con le ruote, al mattino ci portava a destinazione e ci veniva a riprendere a fine giornata.
Mi sentivo come in un romanzo di Charles Dickens, ma quando hai vent’anni vivi tutto con una leggerezza particolare.
Fra i vari posti in cui mi piaceva andare c’era il mercatino dell’antiquariato di Portobuffolé.
I proprietari dei negozi, forse inteneriti nel vedere questa ragazzina con un improvvisato banchetto di dolciumi, m’intrattenevano nei tempi morti raccontandomi le storie dei loro oggetti antichi.
Il fascino delle parole antiche
Anche le parole sono ricche di storie interessanti. Hanno viaggiato con l’uomo attraverso i continenti e nei secoli. Hanno subìto le mode, sono state travisate, sfruttate, a volte valorizzate altre volte mortificate.
Sono affascinata dalle parole antiche che i nostri nonni o bisnonni usavano, mentre noi ne ignoriamo l’esistenza.
Mi piace riscoprirle attraverso i libri di chi, come la linguista Sabrina D’Alessandro, per passione si è imposto la missione di promuoverle, di conservarle nonostante i tempi.
Un po’ come quando scovi nella soffitta della nonna una cornice antica impolverata e le vuoi dare una nuova vita.
Quìlio, per esempio, era un modo popolare per indicare il parlare in falsetto. Ma se si diceva cantare in quilio significava “esprimere apertamente la propria disponibilità sessuale”.
Oggi per flagrante intendiamo il momento in cui sorprendiamo qualcuno combinare qualcosa di grave. In origine, però, fragrante voleva dire ardente, infuocata.
Il cicisbèo era colui cha passava gran parte del suo tempo a corteggiare le donne. L’onomatopea ci-ci-ci delle chiacchiere e la parola babbeo si sono incrociate per dare vita a questa parola ormai dimenticata.
Un tempo si dava della baciapile a chi era bacchettona e bigotta, perché l’acquasantiera veniva chiamata pila.
O ancora gagaròne per indicare un uomo frivolo, leggero e squattrinato che si vuol dare le arie da gran signore.
Non ci pensiamo mai, ma perdere l’uso di queste parole vuol dire perdere l’opportunità di comunicare dei concetti ben precisi attraverso un solo vocabolo.
Con quadrilargo un tempo s’intendeva uno più largo che alto.
I poeti scarsi, poco talentuosi venivano etichettati come versipiùvolo.
E scoprendo la ricchezza della nostra lingua arcaica ci accorgiamo di quante parole preziose abbiamo perso per strada, senza averle sostituite con parole nuove.
Ci siamo solamente impoveriti e abbiamo rinunciato a comunicare alcune espressioni.
Se penso a un futuro lontano temo, ahimè, che ci sarà ben poco da recuperare della lingua contemporanea, se non dei bruttissimi vocaboli in “marketinglese” o in “burocratese”, davvero poco, poco creativi.