Di pappagalli aggressivi e dell'uso creativo della parola

 

Quando sono fuori fase c’è un solo posto in grado di rimettermi in sesto: casa di P., in provincia di Venezia.

P. è un’operatrice reiki che ho conosciuto molti anni fa, quando avevo appena cominciato il mio percorso di crescita, affamata di esperienze insolite e di persone creative.

È una donna piccola e gracile; ha un chioma di riccioli neri così folta che, ne sono certa, pesa più di tutto il suo corpo; due occhi scuri che emanano calma e dolcezza.

Se dovessi immaginare la sua casa ideale, non mi verrebbe in mente nessun altro posto se non quello in cui abita.

Ogni dettaglio è studiato ad arte per trasmettere quiete.

La fontana in giardino, i colori delle pareti, l’aroma di lavanda nell’aria, le piante sparse ovunque, l’immancabile musica di Enya come sottofondo.

Tutto là mi suscita la calma. Tutto, fatta eccezione per Rufus, il suo pappagallo.

Io amo tantissimo gli animali di qualsiasi specie. Non appena ne intravedo uno, gli corro incontro per accarezzarlo, incurante dei possibili rischi che potrei correre.

Con Rufus è diverso.

Lui mira alla mia testa ogni volta che mi vede. Tenta di appollaiarsi sul mio cranio e con le zampe si aggrappa ai miei capelli.

Io credo sia per sottolineare il suo predominio e per ricordarmi chi è il padrone di casa. P. è convinta che gli sia simpatica.

Rufus a parte, trascorrere una giornata a casa di P. potrebbe rimettere al mondo chiunque.

Un concentrato di new age tale che nemmeno ritrovarmi imbottigliata nel traffico delle 19 riesce più a scuotermi.

Uso creativo della parola: come continuare il discorso

Voglio continuare il discorso sull’uso creativo delle parole, perché mi sta a cuore.

In un periodo come il nostro in cui la lingua si è impoverita e il pensiero si è appiattito, la mia personale forma di disobbedienza è riscoprire scrittori geniali che usavano le parole in maniera creativa.

Di Gadda ho scritto più volte, perché è un autore che amo particolarmente. I suoi racconti e romanzi richiedono sforzo e pazienza.

La sua non è una lettura scorrevole, ma dopo aver letto un suo racconto ci si sente molto più appagati e arricchiti di quando si legge gran parte dei bestseller del momento.

Un altro scrittore incredibilmente creativo che giocava con le parole in maniera diversa da Gadda, ma altrettanto ingegnosa è Fosco Maraini, il papà di Dacia e inventore della metasemantica.

Cos’è il linguaggio metasemantico lo spiega proprio lui nella premessa del suo “Gnosi delle fanfole”.

Anziché partire dal significato di una parola, come accade di solito quando si vuole inventare un nuovo vocabolo, si fa esattamente il contrario.

Si parte dal suono. Si creano parole che abbiano un suono evocativo e poi si lascia che il lettore ne dia il senso,

Come dimostra Maraini con la sua metasemantica, il suono ha lo stesso potere espressivo e comunicativo del significato di una parola.

Nella poesia metasemantica l’autore non scrive, ma propone dei suoni e il lettore, come partecipante attivo, dà un significato e un valore emotivo a quei suoni.

La metasemantica nasce da una contaminazione di lingue diverse. Fosco Maraini viaggiò molto e imparò diverse lingue.

Niente a che vedere con l’italiano di oggi, pieno zeppo di vocaboli presi in prestito dal burocratese, dalla medicina e dal “marketinglese”, come lo ha etichettato qualcuno (briefing, call, skills per ricordarne qualcuno).

Perché, ammettiamolo, ci sono contaminazioni belle e contaminazioni brutte.

Fin da piccolo Maraini ha compreso quanto la parola fosse plasmabile.

La parola poteva venir rigirata, rivoltata come un guanto, annodata come uno spago e ne venivano fuori sempre nuvolette nuove. Quelle di una lingua scivolavano in quelle di un’altra. Piano piano imparai ad amare le parole col gusto che il musicista ha per i suoni e i timbri, il pittore per i colori e gli impasti.

Ne sono convinta, possiamo riscoprire la bellezza della nostra lingua attraverso l’amore che questi scrittori così creativi nutrivano per le parole.

La parola era una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendone fiumi di sapori e delizie.

Secondo Maraini la parola è un oggetto componibile. Le parole della metasemantica non sono inventate da cima a fondo, ma sono composte di frammenti e radici di etimi, di morfemi, fonemi, fonosimbolismi, effetti sonori, assonanze e dissonanze.

Maraini le sceglie e le assembla oculatamente in modo tale da evocare o suggerire dei significati.

Concludo con l’esempio più famoso della poesia metasemantica (nel web è possibile trovarne una bellissima interpretazione di Gigi Proietti).

(Noi non sappiamo cosa significhi la parola “lonfo”, eppure comprendiamo al volo che si sta parlando di un animale).

Il lonfo

Il lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce
sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.

È frusco il lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa lègica busìa, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.

 
Virna Cipriani